L’Italia possiede un immenso patrimonio paesaggistico e culturale che – come appare più che mai evidente in questo momento di insicurezza e di fragilità innescato dal recente terremoto che ha colpito il Centro Italia – va salvaguardato, conservato e valorizzato perché costituisce una parte fondamentale e fondante della nostra identità. Ed è proprio per questa ragione che la sua tutela e la sua valorizzazione sono tra gli obiettivi prioritari enunciati nell’Art. 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), che recepisce e attua i principi dell’articolo 9 della nostra Costituzione che è sempre bene ricordare e tenere a mente: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Appare dunque chiaro che tra le finalità dell’archeologia, intesa come scienza che insieme è umana, tecnologica e “pedagogica”, ci sia oggi anche quella di essere recepita come “servizio pubblico” a favore della comunità, con tutte le relative implicazioni etiche, sociali, economiche e politiche che ciò comporta. Da qui l’esigenza e i conseguenti numerosi tentativi di dare una definizione a quella che è divenuta col tempo – negli anni Ottanta, in ambito anglosassone e nordeuropeo, e da qualche anno anche da noi – una vera e propria disciplina accademica, l’ “archeologia pubblica”.
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