Zenobia senz’elmo, tutta dimessa, comparisce sulla sommità
delle scale, e discende:
“Tutto è perduto. Per Augusto e Roma
il Ciel si dichiarò. Cadde Palmira,
ed alla sua caduta invan sostegno
l’Asia intera si fece: in un sol giorno
l’Asia intera fu vinta... oh pena! oh scorno!
(Rivolgendosi ai Grandi e alle donzelle che la circondano)
Miseri... ahimè! Non resta
patria per voi... la patria è serva, e servi
i figli vostri... unica speme è morte...
Nulla d’amaro ha questa,
quando toglie all’infamia... ed io... ma parmi
udir d’armati e d’armi
lo strepito appressar... giunge Aureliano...
Ove fuggo? ... Ogni via
chiusa al mio scampo io miro...
Lassa! dove mi celo? ove m’aggiro?”
(Esce Aureliano: tutti si affollano supplichevoli innanzi a lui)
(G. Rossini, Aureliano in Palmira, atto secondo, scena seconda)
Da questo breve monologo dell’“Aureliano in Palmira”– opera in due atti di Gioachino Rossini con libretto di Felice Romani, rappresentata per la prima volta al Teatro della Scala di Milano il 26 dicembre 1813 – si evince che Zenobia è stata sconfitta e Palmira espugnata dai Romani. Siamo nel 272 d.C. e, nell’ultimo rifugio dei notabili del regno palmirense, fa il suo concitato ingresso la regina, seguita a poca distanza dall’imperatore di Roma. L’azione inscenata trova origine negli avvenimenti che portarono Aureliano alla riconquista dei vasti territori occupati in Oriente dalla vedova di Odenato, la cui ambizione era quella di diventare l’indiscussa Signora dell’Oriente, rivendicando la propria autonomia da Roma e riunendo sotto di sé – per il tramite di un’abile politica sincretistica che esaltava le differenze – la Siria, l’Egitto, l’Asia Minore, l’Arabia, tutte regioni instabili politicamente, eterogenee dal punto di vista linguistico, culturale e religioso, ma soprattutto insofferenti al dominio romano.